#41 - Rain on New York /5

di Yuri N. A. Lucia

 

 

Tutto a me pare, questa piova travolger voglia, d'ogni umano artefatto fare scempio e nasconerlo allo sguardo del Creatore, si fosse più empia tra le empietà...

 

Superò la soglia, dopo un istante di incertezza. L'appartamento, composto da un unico ambiente che fungeva da camera da notte e da soggiorno, un bagno, un piccolissimo angolo cottura. Storse leggermente il naso pensando all'affitto che gli avevano chiesto per quel buco, soprattutto al fatto che aveva dovuto pagare anticipatamente ben quattro mesi. Tuttavia non gli era nuovo abitare in ambienti che altri avrebbero definito senza mezzi termini, tuguri, anche se quello li batteva tutti. Ricordò i tempi da matricola universitaria, quando viveva insieme ad Harry. Harry! Lui avrebbe sicuramente trovato la battuta giusta che avrebbe fatto sembrare il vivere in quel posto qualcosa di accettabile. Però non c'era, non poteva contare sulla sua presenza rassicurante. Era strano ricordare quanto sapesse infondergli sicurezza la sua vicinanza, pensando a tutto il terrore che gli procurò negli ultimi, disgraziati, anni della sua vita, prima di incontrare una morte prematura e ingiusta. No, quello che lo inquietava era Goblin, non il suo amico. Il folletto verde che lo aveva pervaso, devastandone la psiche, a poco a poco, l'infetto retaggio di un uomo che non sarebbe mai e poi mai dovuto sopravvivere al figlio. Strinse istintivamente i denti. Proprio non riusciva a perdonarglielo. Gli aveva strappato via Gwen, anni prima, minacciato persino zia May, le due persone che più amava al mondo. Poi aveva trasformato il suo migliore amico, un fratello per lui, in un mostro. Ma che fosse ancora in vita era troppo. Era quello che aveva sempre pensato a livello inconscio, ora lo stava semplicemente tirando fuori. Si buttò sul piccolo letto, dalle molle dure e dalle coperte che avrebbe cambiato quanto prima, ascoltando la tempesta che bussava alle imposte delle finestre con fare prepotente, quasi gli volesse rammentare che non era tempo di auto psicoanalizzarsi ma di agire. Era per questo che si era allontanato da casa sua, aveva litigato con M.J. come mai aveva fatto. Aveva preso quella casa nel Queens che per essere vicino alla zona dove Xiu Jingu aveva il suo giro di malaffare. Lo voleva tenere d'occhio da vicino. Non poteva permettersi il lusso di perdere neanche una delle sue mosse. Era una guerra quella. Si portò una mano là dove, due giorni prima, il proiettile che si era beccato nel magazzino era entrato ed uscito, ledendogli muscoli e vasi sanguigni. Portava ancora i bendaggi, anche se ormai non sanguinava più.

 

Due giorni prima, un magazzino ad August street, zona del Queens.

"Piano ragazzo, fai piano. Non sforzarti o l'emorragia aumenta."

Continuava a fissare il ragazzo morto che gli stava davanti. Perchè era dovuta andare così?

"Mi dispiace, è andata così, dovevo scegliere, o te o lui."

"E così hai scelto me. Ti ringrazio Rucker, mi hai salvato ancora una volta la vita."

"Di niente testa di tela, dimmi piuttosto se riesci a muoverti."

"Non potrò ballare lo schiaccianoci per una settimana ma... un paio di passetti riesco ancora a farli."

"Ottimo - rispose sorridendogli Terenzio, cercando di distrarlo dallo spettacolo che gli si parava davanti. - Volevo chiederti giust'appunto se ti andava di esibirti per lo spettacolo di beneficenza della polizia tra un mesetto. Parteciperà anche la Torcia."

"Solo se sui manifesti il mio nome sarà scritto più grande di quello della Torcia Umana."

Tossì, sputando un po' di sangue dentro la maschera. Si fermò un attimo, scostò l'altra faccia che aveva sopra solo un attimo, il tempo di sputare su un guanto del costume. Non gli andava di lasciare in giro tracce del suo D.N.A. Riabbassata, riprese a zoppicare, sostenuto da Rucker. Arrivò ad una sedia rovesciata che il poliziotto raddrizzò e ci si sedette per rifiatare un'attimo.

"Non erano normali umani."

"Da come ti hanno conciato lo credo bene. Ti ho visto malmenare una decina di Killer addestrati, senza quasi riportare un graffio. Cosa sono questi qui?"

"Questo non lo so. Direi potenziati con qualche sistema all'ultimo grido. Un cocktail genetico, una droga d'ultima generazione... fatto sta che forza, velocità e riflessi erano notevolmente superiori alla media umana. E' stata colpa mia, sentivo che qualcosa non andava, però ero troppo impaziente... e l'ho quasi pagata con la vita la mia impazienza. I Jong hanno architettato questa storia perchè mi volevano prendere in trappola."

"Ora cosa pensi di fare?"

"Aveva ragione..."

"Come?"

"No niente. - Liquidò la frase, continuando intanto a pensare a quello che la moglie gli aveva detto.- Non posso combattere da solo stavolta, né tantomeno aiutarti da solo... anche se il mio orgoglio un po' ne soffre. Queste sono bestie assassine, spietati e determinati nel raggiungere il loro scopo. Non cattivi da operetta con nomi fantasiosi e costumi sgargianti."

"Direi che mi stai dicendo che hai bisogno di aiuto... e da chi lo cercherai?"

"Diciamo che ho un'idea."

 

Appartamento provvisorio di Peter Parker, Calsberg street, ore 19.00 p.m. oggi.

 

Aprì gli occhi e accese la lampada sul comodino poco distante, si stropicciò gli occhi quando la accese. Si tirò su a sedere. Ora la ferita gli faceva molto meno male e anche la gamba andava decisamente meglio. Quando si era allontanato dal campo della battaglia gli era sembrato di dover morire per quanto male sentiva. Quando giunse a casa praticamente svenne in bagno. Restò k.o. per almeno un quarto d'ora buono, mentre il suo efficentissimo organismo provvedeva a rattoppare il rattoppabile. Il peggio arrivò quando M.J. tornò a casa. L'aveva sentita rientrare, lo chiamò un paio di volte e lui rispose che era in bagno e si stava lavando. La sua voce impastata lo aveva tradito. Era salita su in fretta e furia e aveva bussato con forza alla porta. Alla fine aveva dovuto aprirle. La bambina era da una vicina con  Anna, Dio benedica quella donna, quindi si risparmiò quello che seguì la mezz'ora dopo. All'inizio con voce rotta dalla disperazione, si sincerò che le sue ferite non fossero mortali e che stesse bene. Poi cadde in un'evidente stato depressivo e pianse senza dire una parola per un po'. Alla fine, tutto quello che aveva sempre represso per anni, esplose con una ferocia tale da lasciarlo senza fiato.

"Perché?! Cristo santo Peter, perchè?!?! Devi spiegarmelo, devi dirmelo e non tirare fuori le solite vecchie motivazioni!!! Tu sei un irresponsabile Peter, no! Peggio!!! Tu sei pazzo!!! Sì! Ora l'ho capito! Non sei diverso da Osborn, anche tu come lui ossessionato dal tuo alter ego, anche tu così preso da te stesso che non ti accorgi di quello che fai!!"

"Ti prego, amore - aveva cercato di calmarla lui- Capisco quanto sei sconvolta ma tu lo sai..."

"No!!! Col cazzo!!! Tu non hai idea neanche di quanto io sia sconvolta! Tu hai la tua maschera dove nascondi dietro tutti i tuoi problemi, le tue ansie le tue angoscie! Quando indossi quel costume, che Dio lo stramaledica!, ti togli di dosso la tua pelle Peter! La tua anima! Il tuo cuore! Io non ho niente del genere. Devo tenere tutto a chiave quì!- Urlò con vemeenza mentre si batteva il petto con il pugno destro così stretto che un'unghia le aveva leggermente lacerato la carne. - Devo rimanere quì mentre tu ti lanci là fuori, nella notte, e fai le cose più folli e assurde, mentre io aspetto, aspetto di sapere se mio marito tornerà, non sapendo quello che sta passando e quali orrori porterà con sé quando attraverserà la finestra della camera! Sono notti che piangi nel sonno, una settimana ormai! E non è la prima volta! Perchè mi guardi così? Tu i tuoi incubi non te li ricordi, ma io sì! Chi credi che ti abbracci mentre sei impantanato in chissà quale terribile visione!? Ogni giorno che passa, il fardello di cui hai deciso farti carico diviene un po' più pesante, un'altra mostruosità va ad aumentarne la mole! E quando siamo soli e ti guardo negli occhi, vedo che c'è così tanta amarezza dentro di te che non so più cosa mi ammazzerà prima, se quella o l'angoscia che mi sta sommergendo! Mi hai sempre detto che lo facevi per tuo zio Ben! Che era il senso di colpa per la sua morte, che lo facevi per Gwen, perchè non avevi saputo salvarla, per suo padre, George Stacy, per il fratello di Liz, per Jean De Wolf, per Harry che non hai potuto aiutare. Ho dimenticato qualcuno Peter? Dimmi!! Ho lasciato qualche spettro fuori, dal circolo di quelli che ti tormentano tutti i giorni della tua maledetta vita?! Sei così preso ad ascoltare gli echi delle loro voci, che non senti più quello che ti diciamo noi che siamo rimasti e che ti amiamo, e abbiamo bisogno di te! Hai una famiglia Peter Parker, per Dio! Possibile che non ti rendi conto che è questa la tua priorità e che non puoi continuare a fare il vigilante per espiare colpe che non sono neanche le tue! Non sei un poliziotto Peter, neanche un pompiere o un vigile o un medico o quello che cazzo ti pare a te! Sei un adolescente scioccato, che si è nascosto dietro una maschera perchè sentiva il senso di colpa per la sua presunta inadeguatezza schiacciarlo, perchè voleva essere qualcuno più forte, più abile, qualcuno che non fosse perso dietro il dolore, ma potesse riparare agli errori che sentivi aver commesso. All'inizio era un travestimento, ora mi chiedo chi dei due lo sia! Se tu o quel maledetto Uomo Ragno!!!!"

La fissava senza proferire parola, sentendo solo una grande costernazione che non poteva esprimere a parole lacerarlo dentro.

"Dio incazzati!!!! Urlami!!!! Rispondimi!!!!"

Le si buttò sul petto, martellandolo con i pugni chiusi.

"Voglio una reazione da te! Una che sia tua!!! Voglio vederti rispondermi e non scappare e nasconderti dietro quell'orrida faccia dagli occhi mostruosi!!!!"

Dormirono separati, lui sul letto, perchè era in pessime condizioni. Lei sul divano. Aveva telefonato chiedendo alla zia se la bambina poteva rimanere a dormire da lei quella notte. Pianse quasi initterottamente e lui era lì, che fissava il buio. Un piccolo ragno cominciò a calarsi su un filo di tela, lentamente, raggiungendo ad un certo punto quasi la sua fronte. Si fermò e si studiarono vicendevolmente. Sembravano attratti l'uno dall'altro. E così cominciò a chiedersi quanto di umano, oltre alle apparenze, in realtà rimanesse in lui.

 

Un elegante ufficio a Manatthan, dove Xiu Jingu ha la sede dei suoi affari puliti. Ore 12. A.M.

"Mr. Weird! E' un vero piacere averla quì!"

"Anche per me lo è mr Xiu. Mr. Quest le porta i suoi saluti e spera che quanto prima possiate giocare di nuovo a tennis insieme."

"Ah, non vedo l'ora anche io. E' raro trovare un giocatore così bravo tra i non professionisti! Ricambi pure il saluto quando sentirà il suo datore di lavoro, e gli dica che mi auguro di poterglieli portare di persona io stesso. Allora, come è andato il volo?"

"Benissimo. Anche se hanno dato solo film noiosi. Con quello che costa la prima classe mi aspettavo di più. Anche lo champagne che ho bevuto era un po' deludente. Ma che ci vuole fare, le cose non sono più quelle di una volta."

"Come dice bene, mio caro amico. I tempi cambiano, peggiorano, e per i gentiluomini come lei e me, diviene sempre più difficile adattarsi al nuovo corso delle cose. Prego, mi segua, staremo più comodi nel mio studio privato."

Jingo condusse il bel ragazzo dalla carnagione abbronzata e dai capelli a spazzola, in un'ambiente semicircolare, le cui parete piatta era una enorme finestra che dava su uno dei più maestosi spettacoli del pianeta: il frutto della civiltà umana. La parete opposta invece era ricoperta di specchi, anche la porta da cui erano entrati, era decorata con uno specchio. Le sette sezioni erano divise tra loro da colonne scolpite nella parete, che ricordavano vagamente lo stile ionico, anche se più astratte. Weird alzò lo sguardo e vide il bell'affresco di tema religioso che ornava il soffitto.

"Bello, vero? Un artista italo-americano, molto bravo in questo genere di cose. Mi è costato un po', però ne è valsa la pena. Lei che ne dice?"

Contemplò la teoria di santi che attorniavano una rubiconda madonna, vestita d'azzurro, che reggeva in mano un bambino dallo sguardo acuto e colmo di pietà.

"Bellissimo! Scommetto tuttavia che non vende molto. Ormai questo genere è considerato demodé! Che idiozia, l'arte vera non è mai demodè..."

"Ha ragione da vendere amico mio!"

Si diresse verso un'ampia scrivania di marmo fiorentino, che posava su gambe di faggio squisitamente scolpite. Estrasse da un cassetto una bottiglia.

"Sono rimasto a corto di Champagne ma ho un Brandy favoloso. Anche se non è l'ora più adatta per gustarla la invito comunque a prenderne un sorso."

Prese anche due bicchieri adatti, sempre da un cassetto, e servì personalmente l'altro.

"Delizioso. - Commentò quello, dando una rapida occhiata al contenuto della coppa. Odorò un secondo e poi tornò a guardare su.- Il nuovo ufficio è davvero spettacolare. Dovrebbe vedere la sede del nostro nuovo show room allestita da mr. Quest. Le piacerebbe molto."

"Oh, io e il sig. Quest abbiamo gusti molto simili. Un vero gentleman con il senso dell'estetica e amante del bello. Propongo un brindisi a lui, ormai non ce ne sono quasi più di uomini così!"

"Concordo!"

I due alazarono i bicchieri facendoli tintinnare leggermente uno contro l'altro.

"Ora, se è d'accordo con me, possiamo parlare delle incombenze d'affari."

"Certamente Mr. Xiu. Speriamo vivamente che lei sia rimasto soddisfatto dei prodotti che ha avuto modo di provare."

"Molto! Gli articoli europei sono strepitosi. Prezzo e qualità sono ottimi. Ci siamo talmente ben trovati che vorrei ordinare almeno altre 20 casse."

"Molto bene, accontenteremo quanto prima la sua richiesta. Tra l'altro c'è un vantaggioso sconto per lei, oppure, se rinuncia allo sconto e aggiunge un cifra pari al decimo del totale da pagare, le aggiungiamo 5 casse di armi a raggi di nuova concezione. Si tratta di splendidi esemplari di tecnologia bellica, così efficienti che quando avrà avuto modo di provarli ce ne ordinerà minimo 50 casse!"

"Ah, mi fido sulla parola mio caro."

"Grazie signore."

"C'è solo una cosa che mi lascia dubbioso."

"Che cosa? Se posso aiutarla."

"Si tratta del P.O.W.E.R."

"Non ne è rimasto soddisfatto?"

"No, no! Anzi! Solo che c'è ancora quell'inconveniente che i nostri tecnici non sono riusciti ad eliminare."

"Me ne rendo conto. Purtroppo neanche noi siamo riusciti a risolvere il problema anche se gli ultimi risultati sulle cavie sono incoraggianti in questo senso. Comunque, il nuovo siero che ho portato con me come lei ci ha richiesto incrementa ancora di più le prestazioni dei soggetti a cui viene somministrato."

"Splendido! E quell'altro articolo?"

"Può visionarlo quando vuole signore."

"Perfetto! Efficienti come sempre!"

"Con ogni cliente! Specialmente con quelli come lei signore. Mi permetta di dirlo, lei è uno dei nostri acquirenti migliori e tra quelli più stimati dal nostro signore."

"Ne sono lieto. Potremmo organizzare per stasera, prima di cena. Dopo potremmo andare da Antoine a mangiare."

"Si può fare. Me ne occuperò personalmente."

I due si congedarono. Weird scese in strada dove un Bentley lo aspettava. Jingo guardò dall'alto la macchina allontanarsi.

Fece un  cenno con la mano ed uno degli specchi cominciò a trasmettere delle immagini provenienti dal laboratorio sottostante al palazzo.

Quong e Chang erano legati saldamente al lettino da anelli di metallo. Si agitavano così tanto che nonostante i tavoli fossero imbullonati al pavimento, tremavano in modo spaventoso. Sbavavano ed avevano gli occhi praticamente fuori dalle orbite. Le vene pulsavano paurosamente sotto la pelle, che sembrava bollire. Avrebbero resistito ancora per poco. Feng aveva ragione. Purtroppo il P.O.W.E.R. produceva dei super soldati  a breve scadenza. Non valeva la pena sacrificare uomini per cui erano stati spesi anni di addestramento e di provata lealtà. Tuttavia il soggetto che aveva scelto per il potenziamento andava benissimo. Avrebbe sicuramente raggiunto lo scopo. Rise pensando che presto si sarebbe liberato del Ragno.

 

Sudio della dottoressa Kafka, ore 20.00 p.m.

"Si, qui dottoressa Kafka. Ah sei tu? Ho letto i giornali! Come stai? Ti senti... ah, certo capisco. Come? No, non è qui. Certo! Dovrei sentirlo domani. Cosa? Ah sì, aspetta un attimo che lo segno. Allora domani a che ora? Si, stai tranquillo. Glielo farò avere a tutti e due. Non so quando vedrò l'altro ma posso chiedere a lui se... certo. Si, allora ti saluto e... se hai bisogno di parlare con qualcuno... si, certo. Comunque quando questo momentaccio sarà passato fammi sapere, ok? Ciao e... in bocca al lupo."

Attaccò il telefono. La sua voce era turbata anche se aveva cercato di dissimularlo. Si capiva benissimo che qualcosa si stava logorando al suo interno. Del resto con tutto quello che gli era capitato. Se solo avesse potuto parlarci un po'...

 

Sede del Daily Bugle. Ora 16 del giorno prima, ufficio di Robbie Robertson.

J.J.J. camminava nervosamente avanti e indietro, osservato da un preoccupato Robertson. Erano stati momenti molto difficili il giorno precedente e sapeva che il vecchio, nonostante tutto quello che potesse dire, ne era rimasto scosso.

"E' meglio che tu ti sieda, agitarti così non serve a nulla e non ti porterà nulla di buono."

Ignorò il suo consiglio e continuò ad andare su e giù.

"Non riesco a crederci! Tutta quella gente, la polizia presente, la security. E quelli hanno trasformato Broadway in un mattatoio. E' un miracolo che al teatro Fawcet le cose non siano andate peggio! Avrebbe potuto essere una vera carneficina. Anche stavolta l'Uomo Ragno è stato visto sulla scena..."

"Jonah! Buon Dio! Non riprendere con questa storia! Lo sai meglio di me che non c'entra niente. E' arrivato quando ormai era tutto finito, sai benissimo che tra l'altro è lui che ha preso quelli che erano scappati, consegnandoli alla polizia. Non pretenderai di dargli la colpa di tutto."

Inaspettatamente J.J.J. si fermò, assumendo un'espressione calma e controllata.

"...hai ragione."

Quella semplice risposta lo lasciò senza parole.

"Stavolta non c'entra niente. Vorrei sapere allora chi? C'è questa nuova famiglia cinese dedita al crimine in città di cui si sa pochissimo! Possibile che non ce ne siamo accorti prima?"

"Jonah, nessuno è onniveggente, per quanto possa dolerti ammetterlo neanche tu."

"Noi raccontiamo tante storie alla gente, mi chiedo ora se ci occupiamo di raccontargli quelle importanti...."

A quell'ultima affermazione Robbie non seppe rispondere. Poteva solo condividere silenziosamente l'amarezza del suo amico per quanto era successo.

"Dov'è Parker?"

"Credo con la famiglia. Dopo quello che è successo."

"Già. Stavolta non ha neanche fatto foto di quel mostro. No, non preoccuparti, non voglio certo prendermela con lui! Povero ragazzo, doveva essere una bella serata per lui e la sua famiglia, soprattutto per la cara Mary. Invece si è trasformata in un orrore da dimenticare. Il brutto è che potevano andarci di mezzo anche loro. E' ovvio che sia sconvolto. Più tardi li chiamerò per sentire come stanno... ora penso sia meglio lasciarli un po' soli. Ne hanno bisogno."

 

Un bar nei pressi di Arlan Square. Ore 19 di oggi.

Rookye rimirava il liquido nel suo bicchiere. Lo spacciavano per vero Whiskey irlandese, anche se dubitava che avesse mai visto la terra di san Patrizio anche solo da lontano. Mandò giù un sorso, cercando di riscaldarsi. La pioggia fuori cadeva in modo ormai ossessivo. Tant'è che la città intera sembrava esserne stanca marcia. Sembravano destinati tutti ad annegarci. Diverse zone erano state colpite da black-out. Il tratto della metropolitana che passava per la Lexinghton era completamente allagato ed il servizio era stato sospeso per diverse ore. Le strade erano intasate. Mandò giu un altro sorso. Si chiese il ragazzo cosa stesse facendo. Lo avrebbe chiamato se avesse potuto, magari per sentire come stava. Ma non aveva un telefono dove contattarlo.

"Allora è così che si fa Terenzio Oliver Rucker? Si beve senza aspettare gli amici? Sei molto cambiato Rookye! Un tempo uno sgarbo del genere non lo avresti mai fatto!"

Il poliziotto alzò gli occhi sulla figura rassicurante che era comparsa al suo fianco e gli si allargò automaticamente un sorriso sul volto.

"Ciao Arthur! E' un vero piacere rivederti!"

 

Ore 05.00 A.M. del mattino successivo. Località sconosciuta.

Il dottor Klovitz era seriamente preoccupato. Aveva tutti i motivi per esserlo. A suo avviso stavano tutti prendendo la cosa con troppa leggerezza. Quelli della Quest INC. erano bravissimi per quanto riguarda il Marketing. Sapevano sicuramente come vendere i loro prodotti. Il problema era che, come sapeva bene per esperienza personale, che il minimizzare o nascondere i difetti di un prodotto non equivaleva ad eliminarli. Volevano lanciare il P.O.W.E.R. come uno dei loro prodotti di punta e per questo avevano fatto ai Jong, uno dei loro migliori acquirenti, dei fortissimi sconti per incentivarli a provarlo sui propri uomini. A sorvegliare il laboratorio c'erano 10 soldati in suit da combattimento, Pretorian A-500, un modello originariamente sviluppato in segreto da Justin Hammer, di cui i loro fornitori si erano impadroniti e che avevano commercializzato producendola in serie, armati di ND-565-H.V.I.S. latveriani e ND-565-H.V.I.S. Ravage version., ulteriormente potenziati. Il tavolo era guardato a vista e il soggetto era monitorizzato da diverse centinaia tra digicamere, sensori di movimento, all'infrarosso, analizzatori spetterali, analizzatori molecolari, sonar e quant'altro poteva concepire l'umana immaginazione. Era lì, immobile, apparentemente calmo. I suoi occhi erano freddi come il ghiaccio e non riusciva a guardarli per più di qualche secondo. Sembrava concentrato a tal punto sui suoi pensieri da essersi alienato dalla realtà. Aveva a lungo letto gli appunti dell'uomo che aveva contribuito a trasformarlo in quella cosa. In un certo senso l'aveva ricreato, mutandolo in una feroce macchina assassina, tremendamente efficente, priva di qualsiasi remora. In un certo senso provava una grande ammirazione per quel suo collega di cui aveva solo letto e che sfortunatamente non aveva mai conosciuto. E anche per quello che era il risultato del suo lavoro. Tuttavia non dimenticava che era stato proprio quello a ucciderlo. Era stato sottoposto già a diversi interventi di potenziamento che avevano ulteriormente alterato la sua fisionomia al punto che di umano gli rimaneva davvero ben poco se non la mera forma esteriore. Aveva espresso i suoi dubbi sia a Mr. Xiu che al rappresentante della Quest, Mr. Weird. I suoi timori erano stati liquidati in poche battute. A loro importava solo che assolvesse alla missione per la quale lui doveva prepararlo. A suo parere la facevano troppo semplice. Per un certo periodo avrebbero liberato per N.Y.C. un essere che sarebbe sicuramente uscito fuori dal loro controllo. Il profilo psicologico e le analisi neurali indicavano concordemente che sperare di farlo attenere a qualsivoglia ordine era una pura utopia. Era sempre stata una personalità estremamente egoista ed egocentrica, un cinico d.o.c., il cui unico centro d'interesse erano se stesso e il proprio benessere, caratterizzato da una sete di potere smodata e da un desiderio, neanche troppo inconscio, di imporre la propria volontà al prossimo Un carattere che mal sopportava ordini e imposizioni, distratto, indisciplinato, rapido all'ira. Negli ultimi anni inoltre il cervello aveva risentito di tutte le continue mutazioni a cui era sottoposto. La dura madre, non si sbagliava, si era ridotta rispetto a quella che era la media dei normali esseri umani. In altre parole, stava instupidendo, divenendo sempre più simile ad una bestia predatrice. La parte centrale era in iper attività, a discapito dei centri del linguaggio, della razionalizazione e dell'astrazione. Parlare, per quel povero disgraziato doveva essere divenuta una vera impresa. Se ne era reso conto durante i test. Cercava di mostrarsi a proprio agio, come se non avesse niente, ma la sua voce tremava troppo spesso. Se gli si chiedeva di rispondere rapidamente si "mangiava" vocali e consonanti, parole intere,  si esprimeva in modo scoordinato. Scrivere anche gli era egualmente faticoso. Gli aveva, con una scusa, dato da riempire un foglio, e non era quasi riuscito a decifrare la sua calligrafia, insicura, stentata, peggio di quella di un bambino che impara a fare le letterine. Anche il suo apparato percettivo stava cambiando. Cominciava a non distinguere i colori e presentava problemi anche nel discernere oggetti piccoli. L'udito si era notevolmente ridotto. Al contrario il tatto era oltre la media umana di centinaia e centinia di punti. Sugli avambracci erano cresciute delle escrescenze setolose che servivano ad incrementare la sua capacità di registrare variazioni di vibrazioni nell'aria. Anche sotto le piante dei piedi si stavano sviluppando organi per registrare invece le vibrazioni nel terreno. Se gli avesse dato il P.O.W.E.R. cosa gli avrebbe fatto? Sarebbe stato come premere l'accelleratore di una macchina con motore turbo, diretta verso un precipizio. Si deterse il sudore che gli imperlava la fronte con un panno.

"Allora. Siamo pronti o no?"

La voce era atona, glaciale, quasi meccanica. C'era un vago riverbero metallico, come ti corde vocali che stanno divenendo qualcosa d'altro.

"Si... ora procederemo a montarle la speciale Suit Sting L-2000. Poi procederemo con il trattamento. Tutto richiederà un'oretta e mezza, non di più"

Rispose intimorito lo scienziato.

"Bene."

Un ghigno carico di bramosia e odio gli defermò il viso.

 

New York. Un vicolo sudicio ad Hell's Kitchen. Ore 22.30.

Stava per consumarsi un odioso delitto. Avevano bloccato la ragazza con delle manette con cui l'avevano legata ad un tubo dell'acqua che passava esterno. Aveva un vistoso ematoma sulla guancia sinistra e aveva talmente pianto per la paura da non riucire più a versare una lacrima. A Jeff e Crock piaceva quella situazione. L'odore della paura li eccitava, persino più delle grida cariche di terrore e delle suppliche disperate. In quel mutismo, era celato tutto l'orrore che viveva la vittima che loro, esperti in quel genere di giochi, sapevano ben riconoscere e apprezzare. Avevano sempre seguito qualcuno di forte, perchè erano due tirapiedi nati. Prima Ammo. Che però li aveva delusi perchè si era fatto pestare da quel coglione in rosso. Poi Kingpin. E sapevano bene che la sua decantata infallibilità e intoccabilità, si era rivelata una vuota leggenda. Ora, dopo anni, avevano deciso di tentare qualcosa di diverso. Mettersi in proprio, formare una loro squadra in cui le uniche regole erano fare quello che gli andava. Niente più scuse per uccidere, torturare, mutilare. Non erano più necessarie rapine, se non ogni tanto per procurarsi qualche spiccio, come paravento per dedicarsi anima e corpo alla violenza. Ora avrebbero potuto farlo 24 su 24, senza interruzioni o quasi, esclusi i pisolini e i pasti. La ragazza avrebbe inaugurato la loro nuova era di caos e anarchia, poi avrebbero cercato qualcosa di più raffinato. Magari un paio di bei bambini. Crock si tirò giù la zip dei jeans logori, intanto Jeff, con un coltello, le apriva la minigonna. Crock sorrideva come un ebete, gongolante nell'attesa di potersi divertire un po' prima di tagliarla a fette. Jeff si girò per invitare l'amico a farsi sotto. Jeff guardò le omrbe che stavano lì dove un'attimo prima c'era il suo amico e socio. Qualcosa di viscoso e freddo gli si avvinghiò attorno alla mano, strappandogli un urlo. Cercò subito di liberarsene ma si era indurito e gli sembrava più duro del cemento. C'era un filo attaccato a quel bandolo che sembrava uno zucchero filato grigio metallico che gli aveva intrappolato la mano. Qualcosa evidentemente lo teneva dall'altra parte del vicolo e tirò all'improvviso. La sua faccia sbattè contro qualcosa di duro, del sangue fuoriscì dal naso e dal labbro superiore che si era spaccato. Aprì gli occhi, stordito e tremante. La prima cosa che lo colpì fu il non udire nessun suono, solo quello della pioggia battente. Un'altro silenzio. Sempre carico di paura. Stavolta la sua. Sudò freddo. Non c'era nessun ansimare, nessuno scricchilio, niente di niente. Poi qualcosa s'avanzò, emergendo dalla tenebra. Crock era sospeso da terra. Sollevato di un metro, sorretto da una mano, anzi da un dito, attaccato alla sua schiena. Un uomo di 160kg che sembrava un pupazzo di stoffa nelle mani di quella creatura. La luce intermittente di un lampione mezzo rotto colpì qualcosa che luccicò. Un immenso, grande occhio di specchio. Un occhio che lo scrutava senza espressione. Un occhio in cui ora vedeva solo la sua stessa paura.

 

Marta pregava il signore. Pregava che la portasse via di lì. Che la facesse anche morire purchè le risparmiasse quell'angosciante attesa. Attesa per un dolore che avrebbe non sono straziato le sue carni, ma lacerato la sua anima, umiliandola, sporcandola, riducendola solo ad un giocattolo. Non voleva guardare, non voleva sentire, voleva solo isolarsi. Per questo ci mise un po' a rendersi conto che le manette erano state rotte. Che qualcuno le parlava. Una voce che cercava di bucare il rumore della pioggia che cadeva rabbiosa sulla strada, trascinando via fanghiglia e sporco, infradiciandola completamente.

"... ad un ospedale. Lì si prenderanno cura di te. Starai meglio vedrai."

Come era strana la sua faccia, vista in quei grotteschi occhi, come delle lenti che deformavano la realtà , mostrandone gli aspetti più buffi e orripilanti. Come era dolce e gentile la sua voce, mentre ostentava un tono sicuro che non gli apparteneva, cercando di farle credere la sciocchezza che tutto sarebbe stato come prima.

"Perchè sei arrivato solo adesso?"

Non c'era recriminazione, né ingratitudine, né odio nelle sue parole. Solo semplice e innocente curiosità. Per questo scardinò le barriere del suo cuore, gettandolo in un'abisso di rammarico. La abbracciò, la tenne stretta al petto. Le mormorò:

"Non succederà più... te lo prometto."

 

Bar in Arlan square, ore 21. Parecchi drink dopo.

"Cazzo Arthur, c'era un tempo in cui per scolarti cinque birre impiegavi 10 minuti netti!"

"I tempi cambiano Rookye!", rispose Stacy, mentre cercava a fatica di buttare giù un'altro sorso.

"Adesso arrivo a malapena a due e ci impiego due ore come hai potuto vedere."

"Ahahah, stai invecchiando amico mio!"

"Sono invecchiato! Ma anche tu non scherzi sai?"

"Si, ma ho ancora conservato il mio proverbiale fascino di bel tenebroso, anzi, direi che con il passare degli anni è persino aumentato. Ormai le donne cadono ai miei piedi con un solo sguardo."

"Certo, nei tuoi sogni più arditi."

I due risero di gusto.

"Accidenti, mi sei mancato vecchio mio. Era un po' che sentivo il bisogno di farmi un bevutina con te."

"Anche io. Mi ricorda i tempi felici. Quelli si che erano bei giorni. Sempre noi quattro. I moschettieri ci chiamavamo, ti ricordi?"

"E come no! Eravamo anche il miglior quartetto vocale della scuola, oltre che la migliore squadra di bowling del quartiere. Sai, qualche giorno fa, ripensavo a quella volta che dopo la partita, come si chiamava, Lester Sharp, il bullo, mi cercò per pestarmi. Non gli era andato proprio giù che avessi segnato il punto della vittoria. Il bastardo era un carroarmato di carne, pesava 100 kg per 1.80 di cattiveria. Mi aveva preso per il bavero e stava per mazzolarmi per bene, quando George arrivò. Mi era venuto a cercare per restituirmi l'asciugamano che gli avevo prestato,  e si precipitò come un falco sul tipo. Lo stese con uno dei suoi memorabili destri. Avrebbe avuto una carriera sicura come pugile lo sai?"

"Avrebbe avuto una carriera sicura in molti campi. George aveva un gran cervello."

"Già. Scommetto che ti manca ancora molto eh? Manca anche a me. Alla sua salute."

"Alla salute di Georgy."

I due bicchieri si scontrarono leggermente, facendo tremare il contenuto all'interno.

"Mi manca molto, sì. Mi manca anche mia nipote, Gwen."

"La piccola Gwen. Se ripenso a come è andata. Signore onnipotente, quella ragazza avrebbe dovuto essere ancora quì tra noi. Avrebbe dovuto seppellirci lei. Invece quel maniaco mascherato..."

"Ti riferisci al verdone vero?"

"Andiamo, lo sai come la penso su testa di tela. Devo ammettere che è un personaggio dai tratti inquietanti delle volte, però sappiamo bene tutti e due che è sempre stato dalla nostra parte. Non ha mai ucciso nessuno, neanche quel bastardo del Mangiapeccati, e se lo sarebbe meritato, figurati se avrebbe mai fatto volontariamente del male ad una persona innocente. Ha rischiato la vita talmente tante volte per difendere anche chi lo denigrava."

"Eh tu lo sai bene."

"Condivido le opinioni di George. Sai, sono convinto che in un qualche modo, fosse venuto a sapere dell'identità del Ragno."

"Dici?"

"L'ultima volta che parlai con lui, non accennò alla cosa direttamente. Però, ero riuscito a fargli dire qualcosa che mi aveva fatto pensare in tal senso. Comunque, era troppo intelligente per non avere qualche sospetto."

"Tu invece? Hai qualche idea?"

"No. Neanche mi interessa sapere chi sia. Mi basta che faccia parte dei buoni. Anche se non so fino a che punto questa definizione va bene per noi."

"Ho saputo dei tuoi guai con la commissione interna. Mi dispiace."

"Rischi del mestiere. Ho fatto fuori parecchia gente per loro. Non hanno tutti i torti. Anzi, hanno tutte le ragioni, ho effettivamente sbagliato molti calcoli e questo mi ha portato al punto in cui sono ora."

"Quando ci si imbarca per la guerra è sempre così"

"Niente lavoretti facili e puliti eh? Solo sporco e sangue."

"Proprio così. Amen."

Arthur prese un'altra sorsata della sua scura. Bevve con avidità, poi tornò a guardare l'amico.

"So che ci hai parlato. Lo hai incontrato. Hai anche collaborato con lui."

"Sono lieto di vedere che la tua rete di informatori funziona bene Art! Non ti si può nascondere niente. Neanche tu comunque sei stato con le mani in mano vero? So che ci hai avuto direttamente a che fare parecchie volte."

"Non lo nego. E' un bravo ragazzo. Un tipo in gamba."

"Si. Lo ammiro molto. Ma c'è qualcosa in lui..."

"Sì?"

"Una sofferenza che si porta sempre dietro. Ovunque vada, qualunque cosa faccia, sono sicuro che sia sempre con lui. Anche quando scherza, sparando battute nel corso di uno scontro con dei criminali, so che è come se tenesse su uno schermo, per proteggersi. Qualunque cosa sia, deve essere la molla che lo ha spinto a diventare quello che è."

"Tutti ci portiamo dentro qualcosa che ad un certo punto, ci ha fatto prendere le decisioni che abbiamo preso."

"Spero solo che lui non si penta delle scelte che ha fatto. Sarebbe una grave perdita per noi."

"Eh si... ora però, passiamo agli affari. Ho con me la roba che ti serviva."

"Perfetto. Sei unico Art."

"Lo so, lo so."

"Andiamo a casa mia, li staremo più tranqulli."

Terenzio tirò fuori il portafoglio, e ignorando le proteste dell'amico che voleva offrire al suo posto, saldò il conto e lasciò una generosa mancia. I due si diressero verso l'uscita.

"Allora Art, come stanno i tuoi ragazzi...?"

 

Casa Osborn. Ore 16.00 di oggi.

"Nonno, nonno! Guarda cosa ho fatto!"

Il piccolo Normie mostrò orgoglioso al nonno il risultato delle sue fatiche con i mattoncini Lego. Era una bellissima astronave, con la quale, nella sua fantasia, il piccolo avrebbe potuto girovagare felice per le stelle in cerca di avventure. Dentro di sé avrebbe tanto voluto che anche il nonno venisse con lui. Norman, intento sul suo computer, prestò poca attenzione al nipote. Quello che era accaduto a teatro l'aveva sconvolto. Stava cercando, mediante tutti i suoi canali, quelli normali e quelli particolari, informazioni sull'omicidio di Gambino. Quando era stato Goblin, un paio di volte aveva trattato di persona con il vecchio mafioso. Non era certo un tipo d'uomo che si sarebbe potuto definire santo, ma tra tutte le bestie che aveva conosciuto nell'ambiente della criminalità lui forse era una delle più umane. Il rumore dei proiettili ancora gli risuonava in testa, così come la sensazione che gli dava lo scorrere dell'adrenalina nel sangue. Si era sentito impotente nel non poter agire. Ma in un certo senso era stato meglio così. Ormai non possedeva più nessuna facoltà paraumana. Era un comune uomo di mezza età. Provò un brivido lungo la schiena. Perchè pensare a se stesso come ad una persona normale lo faceva sentire così? Che fosse stata quella la molla, anni prima, quando accadde l'incidente... una fitta di dolore gli attraversò il braccio, quando allungò la mano per prendere il mouse. Sentì i tendini ed i muscoli torcersi come se qualcuno, dall'interno, li avesse stretti con una tenaglia e avesse cominciato a girare. Portò il braccio dolorante al petto e gemette penosamente. Il piccolo corse da lui, lasciando cadere il frutto delle sue fatiche, che toccando il tappeto, perse diversi pezzi.

"Nonno! Nonnino! Come stai? Che hai?"

Norman, il cui dolore si era improvvisamente calmato, proprio come improvvisamente era comparso, si voltò verso il nipote per rassicurarlo. Si trovò a guardare un volto disperato, rigato dalle lacrime, con gli occhi sbarrati, ricolmi di terrore.

Realizzò solo allora quanto aveva dovuto sopportare. Liz gli aveva raccontato di quando vide sue padre alla Volta, con addosso quella speciale camicia di forza, con il cervello ormai devastato dal siero del Goblin. Chissà quante volte Harry, il suo Harry, aveva di colpo cambiato umore difronte al figlio, urlandogli contro infuriato magari per una sciocchezza. O quante volte, preso dalle sue macchinazioni, lo aveva ignorato, mentre lui cercava solo l'attenzione e l'affetto del papà. Quante volte l'aveva fatto lui stesso? Quante? Tutte le volte che si era girato dall'altra parte, tutti quei silenzi. Le sue alzate di spalle con aria di sufficenza quando lui cercava la sua approvazione, o tutte le volte in cui lo aveva umiliato, deriso, pensando di fortificarlo nello spirito, mentre invece piantava in lui i semi dell'odio e della solitudine. Era lui che l'aveva fatto diventare un tossicomane prima, e un criminale completamente folle dopo. Lui, lui e solo lui. Ed ora? Stava facendo lo stesso con il nipote? Gli aveva tolto lui il padre. Lui aveva ucciso il sangue del suo sangue, perchè lo aveva infettato con il suo nero e tetro male. Si chino di scatto verso di lui e lo abbracciò.

"No, no piccolo. Non c'è bisogno che tu pianga. Al nonno è venuto solo un crampo. Uno stupido crampo. Sono stato troppo quì davanti al computer a fare inutili giochetti e quando ho mosso il braccio... ma ora va bene vedi? Va tutto bene."

Ruotò il braccio, esibendo un grosso sorriso, ignorando il leggero doloretto che ancora aveva. Il piccolo sembrò calmarsi, poi posò la sua testa sulle sue ginocchia.

"Nonno... tu... non stai... male?"

"No, te l'ho detto..."

"...non... non sei come papà?"

Rimase a bocca aperta. Scendette dalla sedia, mettendosi in ginocchio. Se lo strinse forte al petto.

"Scusami. Perdonami."

"Per... per cosa nonno?"

Per aver ucciso tuo padre, avrebbe voluto dirgli.

"Per averti spaventato."

Per essere un mostro ignobile, avrebbe voluto aggiungere. Per aver portato te e tua madre in un abisso di follia. Per aver condannato mio figlio alla stessa sorte.

"L'importante é che tu stia bene ora nonno."

Osborn si asciugò alcune lacrime che erano scese lungo le guance.

"Ehi nonno! Ma che fai, piangi anche tu?" lo canzonò il nipote, che ora sorrideva di nuovo. Anche lui cominciò a ridere. Poi si alzò e si diresse laddove era caduto il giocattolo del nipote.

"Accidenti. Guarda quì cosa ti ho fatto combinare."

"Posso... sempre rifarla... non preoccuparti."

"No. Possiamo rifarla... insieme. Se ti va?"

Normie cominciò a fare salti di gioia, dopo esser rimasto qualche secondo incredulo a fissarlo.

"Certo! La faremo cento volte, no mille volte più bella di prima! Con te verrà benissimo, perchè tu sei bravo vero nonno?"

"Tu sei bravo, campione."

Liz, appoggiata alla parete vicino all'ingresso, aveva sentito tutto. Stava piangendo. Non sapeva se per la tristezza o per la gioia.

 

Nessun luogo, tutti i luoghi. Ora, quella che più vi fa piacere.

Il cielo aveva i colori dell'arcobaleno e una dolce brezza carezzava il suo volto, scompigliandole leggermente i capelli.

Papà?

Si bimba mia, dimmi tutto.

Cosa c'è più su?

Più su di dove?

Del cielo!

Altro cielo.

E dopo?

Altro cielo ancora.

Si, ma dopo dopo dopo, super dopo, ancora dopo?

La Luna, le Stelle, il Sole.

Tu ci sei mai stato?

Tante volte, con la mia immaginazione.  E tu?

Anche io! Sai che mi piacerebbe tanto prendere una stella.

Che ci faresti?

La metterei sulla porta di casa.

E perchè?

Perchè... la sera così, quando torni dai viaggi... sai sempre dove è casa... e non ti perdi.

Pensi che potrei mai perdermi?

Il... babbo di Janet l'ha fatto...

Ah! E come è successo?

Non so bene... ma mi ha detto che un giorno... un giorno è uscito di casa... aveva strillato tanto con la mamma e... non era più tornato.

Credi che potrei farlo anche io? Potrei... perdermi così?

L'altro giorno, ho sentito che tu... tu e la mamma...

Capisco. Ma vedi amore mio, delle volte capita che le persone litighino un po'. Però poi si può sempre fare pace.

Tu e mamma l'avete fatta?

Tutto dimenticato. Siamo di nuovo felici come al solito.

Yeppe!!! E' bellissimo babbo, sono contentissima!

Vieni qui, allora dai un bell'abbraccio al tuo papà! Sai una cosa?

Cosa papà?

Non potrei mai perdere la strada di casa... perchè io di stelle ne ho due che mi indicano sempre il cammino.

Davvero? E dove sono?

Una è qui davanti a me. L'altra ci sta preparando le frittelle, e se non ci sbrighiamo a correre dentro...

Se le mangia tutte lei!

Eh si! Corri dai! Corri! Ahahah vediamo chi arriva prima! Hey ma così non vale! Sei corri troppo svelta...

 

"Dio santo Ilya, mi dispiace davvero. Davvero tanto sai?"

Singhiozzò Rachel, che non riusciva a trattenersi dal piangere ancora.

"Avrei dovuto fare qualcosa. Fare di più. Forse non staresti qui ora. Ma perchè? Dio mio perchè? Tu proprio non te lo meritavi sai? No. Non tu, non la mia piccola dolce Ilya. Se sapessi cosa non farei per portarti fuori da lì, ovunque tu sia. Vorrei tanto averti vicino a me, ora. Hai portato tanto calore nella mia vita. Ero tanto sola sai? Adesso che ti ho trovata, non è giusto che finisca così. Torna ti prego... torna..."

Si coprì il volto con le mani e lasciò che il suo dolore venisse fuori, in tutta la sua dolorosa estensione.

 

Magazzino 21. Porto. Ore 02.00 A.M.

La pioggia l'avvolgeva tutto, come un liquido manto, infradiciandogli il costume, cercando di penetrare dentro, quasi volesse soffocarlo. Era passata una settimana da quando tutto era iniziato ed ora si ritrovava più o meno al punto di partenza. Dopo aver portato quella poveretta all'ospedale, aveva cercato inutilenete Devil. Non lo aveva trovato. Disperato, si era rivolto anche ad un tizio che sapeva scucirgli ogni tanto delle informazioni e, invece di avere notizie del suo amico, era venuto a sapere del porto. I Jong stavano scaricando una partita di armi. Stava attaccato alla parete di un edificio leggermente più alto, sul lato destro del magazino, e guardava dentro da una piccola finestra situata ad un paio di metri da lui. Era avvolto dall'ombra e quindi da dentro non potevano vederlo, almeno così sperava. Lui al contrario vedeva tutto benissimo. Non riusciva a concentrarsi come avrebbe dovuto. Rivedeva ancora e ancora l'espressione di vuota disperazione sul viso di quella poveretta che aveva aiutato. Aiutato! Si chiese se avrebbe potuto arrivare prima, impedire che quei due... ma si rispose che non era possibile. Anzi, era un vero miracolo che si trovasse a passare di lì in quel momento. Rucker aveva ragione, non poteva farsi carico di tutte le colpe dell'universo, almeno non di quello che non erano le sue. Tuttavia quelle immagini pesavano come un macigno sulla sua coscienza, così come quella di Ilya... la povera piccola Ilya. Una vita forse spezzata per sempre, per colpa di feroci bestie senza né anima né cuore che in una sera avevano per sempre cambiato il suo destino. Quando arrivò in ospedale, incontrò Rachel, la sua amica, in preda all'isteria. Pianse a lungo mentre lui cercava di calmarla, di infonderle la speranza che tutto si sarebbe aggiustato, che la sua amica sarebbe stata di nuovo bene. Ma si chiese, in cuor suo, se speranza ve ne fosse davvero. Sotto quel cielo oscuro, che minacciava di divorare tutto, gli sembrava improbabile che vi fosse salvazione per chi che sia. No! Si ribellò a quel pensiero. Non era da lui. Per quanto potesse sembrare disperato tutto quanto, per quanto oscuro potesse essere il sentiero, non poteva perdere la speranza, altrimenti sarebbe stato travolto. Il pensiero andò a Mary Jane e a May. Doveva parlare con sua moglie, parlare davvero. Chiarire tutti i dissensi che c'erano stati tra di loro. Chiederle scusa e soprattutto, cercare di esserlo più vicino. A lei e a sua figlia. Aveva ragione quando l'accusava di trascurarle. Non poteva rinunciare alla sua missione, era suo dovere andare avanti. Non solo per zio Ben, ma per tutte le persone che contavano su di lui. Però doveva imparare a non far sì che questa divenisse una scusa per giustificare la sua incapacità di dedicare le giuste attenzioni ai suoi cari. Sospirò. Se Devil fosse stato lì con lui... parlare ad un vecchio amico gli avrebbe fatto bene. Rispettava molto Matt, sapeva quello che aveva passato e come, anzichè sprofondare nell'autocommiserazione, si era erto contro le avversità e aveva reagito. Non una, ma più e più volte. Anche parlare con Rucker gli sarebbe piaciuto... era una persona che doveva aver egualmente passato dei brutti momenti, perchè ne aveva proprio l'aria. Tuttavia non si era arreso, non aveva mollato.

Due tizi estrassero da una cassa un paio di valigiette grigio metallizzato. Dopo aver maneggiato con quello che sembrava un piccolo pannello numerico posto al lato di esse, si aprirono rivelando il loro contenuto. Erano le armi ad impulso latveriane che aveva già visto in azione. Quelle di cui Rucker gli aveva parlato. Si chiese quante ce ne fossero dentro la cassa. Fece un rapido calcolo mentale, tenendo conto dello spessore delle valigette e dell'altezza e larghezza della cassa. Ad occhio e croce 20. C'erano altre 15 casse. Questo era tutt'altro che bene, pensò. Immaginò quelle armi in giro per le strade della sua città. La cosa non gli piacque minimamente. Aveva visto cosa potevano fare. La polizia sarebbe stata impotente. Si sarebbe dovuto, come minimo, chiamare l'esercito. Sarebbe comunque stata una carneficina. La pioggia cominciò a cadere più fitta e veloce. Non aveva tempo. Là dentro c'erano una trentina di uomini. Avrebbe dovuto farcela. A patto che non fossero potenziati come i cinque contro i quali si era battuto ieri. Per l'evenienza si era premonito. Aveva installato i dispositivi di lancio per le tele ad impatto e pungiglioni carichi di anestetico. Sperava che Ben non gliene volesse. Realizzò che gli mancava molto, che avrebbe voluto incontrare sia lui... sia Kaine. Spesso aveva pensato con disagio ai suoi due duplicati, quasi due Dopplenganger creati dalla mente perversa di un moderno stregone. Ma ora, negli ultimi giorni, si era domandato quanto avessero sofferto a causa di quello che avevano subito, quanto per loro fosse difficile trovare il proprio posto nel mondo, sopratutto sapendo che lui esisteva. Un chiarimento ci sarebbe dovuto essere, anche con loro. No. Una bevuta, una sera al bar, come quando andava con i poveri Flash e Harry. Una serata per loro tre... tre amici... tre fratelli.

Il primo colpo di pungiglione lo sparò in modo che, puntando uno degli uomini dentro, spaccasse una lampada sulla sua traiettoria. Quasi contemporaneamente al crash, il bersaglio cadde a terra svenuto, fuori combattimento per almeno mezz'ora buona. Quasi tutti si girarono spaventati, tranne alcuni, evidentemente uomini addestrati, che avevano a malapena guardato con la cosa dell'occhio. Purtroppo tra loro c'erano i due che stavano esaminando i due fucili ad impulso. Spararono una raffica in direzione della parete con la finestrella che dava sulla costruzione di fronte. Il cemento venne forato come carta velina e i proiettili passarono con altrettanta facilità l'altra struttura, facendosi largo tra altro cemento e tubi di ferro e acciaio. Nulla.

"Che brutto casino eh? Fareste meglio a controllare che le vostre assicurazioni possano coprire i danni."

Si girarono all'unisono e a loro si unirono altri sei elementi che avevano estratto uzi e riot shot guns. La tempesta di piombo passò quando lui era già sparito. Altre due lampadine esplosero, l'ambiente era divenuto più buio. Uno dei due armati di F.I. cominciò a guardarsi intorno.

"Tu tieni d'occhio il soffitto." ordinò il cinese al compare.

Gli altri, i più non appartenenti all'elite dei Jong, erano spaventati mentre girando su se stesso gli puntava contro la canna della letale arma. Gli altri del suo gruppo invece, rimanevano freddi e impassibili.

"Spero anche che la vostra assicurazione medica copra le cure a cui dovrete sottoporvi..."

Una sventagliata di colpi passò pochissima distanza da uno degli aggiunti che si pisciò nei pantaloni mentre stringeva spasmodicamente a sé la sua arma e teneva gli occhi chiusi e le mascelle serrate.

"... dopo che vi avrò pestato ben bene."

Era veloce, in modo disumano, e non era un pivello. Glielo avevano spiegato quando gli avevano fatto studiare quel dossier sui super esseri di New York. Quel corso a cui lui e i soldati di livello superiore si erano sottoposti si era rivelato utile. Almeno sapeva con chi aveva a che fare.

"Uomo Ragno. Ascolta, so che sei tu. Ho riconosciuto il tuo ridicolo costume.- Gli urlò in americano- Tutto quello che noi vogliamo è uscire via di quì, con il nostro carico. Non è nostro compito ucciderti."

"Ah, ne sono lieto. Del resto non credere sarebbe così semplice. Ci ha provato gente migliore di te prima."

"Si, so anche questo.- Ribattè quasi con indifferenza- Tuttavia c'è un'altra opzione."

"Quale sarebbe. Resa incondizionata?"

Commentò in tono beffardo.

"No."

All'improvviso aprì il fuoco sul ragazzo che poco prima aveva mancato di un soffio, dividendolo letteralmente in due.

Trattenne il fiato per alcuni istanti, accovacciato nell'oscurita. Lo spettacolo era stato orripilante. Non riusciva a credere ai propri occhi, né capire perchè.

"Non sono pazzo. Sono solo molto determinato a completare il mio lavoro. Ho un carico da consegnare. Usciremo di quì, con le nostre armi. Altrimenti, te lo assicurò, farò fuori tutti i miei uomini."

Non rispose subito. Sentiva qualcosa urlare furioso dentro il suo petto. Quello che aveva fatto superava di molto il limite.

"Sta bene. Puoi uscire di qui."

"Ho la tua parola?"

"Sì."

Non poteva rischiare che sparasse ad altri. Parte della sua compagnia era terrorizzata a morte. Sapevano che non era una minaccia a vuoto. Undici di loro, compreso l'assassino, erano calmi. Dovevano essere uomini di fiducia. Gli altri erano poco più che aiuti per fare numero.

"Molto bene Uomo Ragno."

Senza dire nulla, con un raffica, decapitò un altro che si trovava alla sua destra. Un poveraccio che si era buttato in ginocchio e pregava, forse il Bhudda, forse qualcos'altro.

"Bastardo!"

"Era solo per confermarti che non scherzo."

Impartì ordini secchi e concisi. I compagni del suo gruppo si occuparono di caricare le casse su piccoli furgoni. Tre in tutto, Renault, mentre agli altri intimò di rimanere fermi per fare da bersaglio. Misero in moto, e uscirono in fila indiana. Dall'ultimo veicolo della fila, dal finestrino, spuntò il capo che aprì per la terza volta il fuoco. Stavolta aveva mirato in modo da amputare il braccio ad un altro.

L'Uomo Ragno uscì dal suo nascondiglio. Corse da quello e, usando come aveva già fatto la sua tela come un improvvisato bendaggio, cercò di bloccare l'emorragia. Urlò agli altri di rimanere lì ad aspettare la polizia. Gli disse che ormai era finita, che i Jong non gli avrebbero mai lasciati in vita riprendendoli nell'organizzazione. Dovevano arrendersi e costituirsi. Non sapeva se lo avessero capito o meno. Di fatto non si mossero. Tranne un paio che cercarono di prestare soccorso all'amico ferito.

Si proiettò in alto, uscendo da un'altra finestra. Saltò da un tetto all'altro, seguendo la strada dove erano passati. Si dirigevano verso la città vera e propria. Con balzi poderosi e precisi, riuscì in breve a raggiungerli. Spiccò un salto che lo portò ad atterrare sul tettino dell'auto di centro. Quasi contemporaneamente da dentro spararono, riducendo il tettino in questione in una massa di schegge di metallo che in grandissima parte volò sull'asfalto. Si portò sull'auto di coda, sul cofano, che si incurvò leggermente per effetto della forza cinetica accumulata in quel movimento. Mentre si trovava a mezz'aria si era voltato, per fronteggiare gli occupanti. Il senso di ragno gli fece schivare un paio di proiettili a velocità normale che aveva forato il parabrezza. Lui, in risposta, esplose una tela ad impatto che, toccato il vetro, esplose, avviluppando tutta la cellula dell'auto. Cominciò a sbandare vistosamente, e dopo aver corso il rischio di finire in acqua andò a sbattere sul muro di un magazzino, dall'altra parte. Prima di ciò si era di nuovo lanciato verso il veicolo davanti a sé, stavolta aderendo al portellone della zona posteriore. Anche stavolta uno sciame di pallottole cercò di strappargli la vita, anche stavolta invece si trovarono a fendere solo l'aria. Si trovava sulla fiancata che guardava il mare. Approfittando di un attimo che avevano rallentato per svoltare, puntò a terra i piedi, facendoli aderire alla strada. La Renault si trovò così bloccata, come se fosse stata incollata. Prima che dentro tentassero qualche reazione, sollevò l'autovettura, scaraventandola in acqua. Sarebbero usciti, sicuramente, ma ci avrebbero messo un po' a uscire. Questo gli avrebbe dato il tempo di occuparsi dei compari che erano rimasti dietro. Corse con uno scatto che non era da essere umano, ma era quello di una buona moto sportiva. Muscoli alterati, lo spinsero con una potenza d'accelerazione pari a quella di un'auto da corsa. Piombò su i tre che erano usciti come un uragano. Nella pioggia la visibilità era ridotta. Non per lui. Sapeva come evitare i pericoli e anche come colpire. Eseguì una spazzata, facendo cadere a terra il primo dei suoi bersagli e bloccandolo con un po' di tela tradizionale. Il secondo lo prese alle spalle, agganciandolo con le dita sulla schiena, si lasciò cadere all'indietro atterrando in modo da non farsi nulla, come aveva imparato a fare nel corso degli anni, ed usando la forza stessa del movimento per scagliarlo un paio di metri indietro. Anche lui lo impacchettò per bene. Rimaneva l'ultimo. L'assassino feroce che aveva trucidato a sangue freddo quei poveracci. Gli comparve dinnanzi all'improvviso, come uno spettro dall'inferno. Quell'improvvisa apparizione gli strappò un urlo. Sparò quanto rimaneva nel caricatore. Di nuovo scomparso. Lasciò cadere a terra l'arma, estraendo dalla fondina ascellare un'automatica. Girandosi, se lo trov_f2 di nuovo di fronte. Gli tolse la pistola di mano prima ancora che lui avesse tempo di accorgersi dell'accaduto. Si sollevò di terra di un metro buono, ruotando su se stesso, cercò di abbaterlo con un calcio. Prese solo aria. Atterrando stava per scivolare sul bagnato ma mantenne l'equilibrio. Di nuovo niente.

"Allora. Come ci si sente quando non sai da dove arriverà la tua fine?"

"Non imbrogliarmi Ragno! Tu non uccidi. Lo so bene."

"Vero. Niente mi impedisce però di farti molto male. E credimi lo farò. Allora. Come ci si sente a non sapere da dove arriverà il prossimo colpo. Se ti prenderà o meno?"

Sentì un movimento rapidissimo davanti a sé. Si ritrovò le nocche di un pugno guantato di rosso appoggiato alla tempia sinistra. Prese fiato e cercò rapidamente di colpire in modo da rompergli il braccio. Niente.

"Brutto vero? Questa sensazione di impotenza di fronte all'inevitabile. E' così che si dovevano sentire quelli che hai massacrato là dentro."

"Sapevano i rischi che correvano! Credi che siano dei poveri sprovveduti quelli lì? Molti di loro hanno ucciso, Ragno! Non fare la morale quindi, non sono agnelli. Sono lupi! E nel nostro branco, se serve, sono carne sacrificabile. Questo loro lo sanno bene!"

"NO!"

Scattò nella direzione della voce. Una velocissima sequenza di pugni cercò di colpirlo. Li parò tutti, scansandoli con una sola mano. Urlò di frustrazione ma sentì qualcosa che gli bloccò il polso. Prima di poter anche solo tentare di liberarlo, un'altra morsa gli si strinse intorno alla gola. Una leggera pressione e quasi svenne.

"Ora, tu, come loro, sei inerme. Dimmi? Devo ucciderti? In fondo non sei un santo neanche tu. Sei un assassino, un fottuto maledetto assassino. Dimmi dunque, devo ucciderti? Scommetto che sei di quelli che la morte non la temono. Addestrato a resistere fino all'ultimo. Dunque, maiale maledetto! Devo ucciderti o no?!"

In risposta udì solo i singhiozzi di un bambino umiliato da un'avversario troppo forte per essere battuto. Quando mollò la presa, lo vide crollare a terra come un sacco di stracci. Immobilizzò anche lui. Poi si recò dagli altri, legando anche loro. Chiamò la polizia. Se ne sarebbero occupati loro. Per quella notte il suo lavoro era finito. Domani avrebbe avuto tutto il tempo di rintracciare il segnale delle spie piazzate sulle due casse e sul primo furgone che era fuggito. Li avrebbe trovati. Presi nel loro stesso covo. Un altro scontro. Stavolta però alle sue regole.

 

Laboratorio dei  Jong. Ore 06.30. A.M. di domani.

"Signor Weird, che ne pensa del nostro campione? Non lo trova interessante?"

"Notevole. La suit commisionataci gli va proprio a pennello. Renderà la sua apparizione più terrificante di quanto non  lo fosse già. Senza contare che aumenterà notevolmente il suo potenziale offensivo."

"La vostra tecnologia difatti è la migliore, signor Weird. Senza dubbio."

"Sarà un buon lancio per uno dei nostri primi prodotti all made by Quest. Finora abbiamo commercializzato tecnologia sviluppata da altri. Non credo che ci dedicheremo mai alla produzione su larga scala di prodotti originali, solo pezzi su ordinazione e per clienti speciali, come lei signor Xiu."

"Ne sono lieto! Ah, ecco il professor Kloviz. Il nostro genio scientifico. Allora buon dottore, siamo pronti?"

"Certo signore."

Avrebbe voluto ancora protestare per quanto stavano per fare. Il siero agiva sviluppando il potenziale latente degli individui in cui veniva somministrato. La velocità e la portata dei cambiamenti dipendevano molto dal soggetto. L' R.N.A. super conduttivo di cui sembrava dotato, avrebbe reso i cambiamenti praticamente istantanei. Soprattutto la portata di questi sarebbe stata terrificante. Sperimentare un simile prodotto su un paraumano come quello, senza mai prima aver compiuto test su cavie più docili era da folli. Tuttavia, i suoi dubbi erano stati già respinti e ora non gli rimaneva che ubbidire prontamente... e pregare.

Il P.O.W.E.R. venne fatto ingerire per via orale, fu un inserviente a portarglielo. Tremava alla visione di quel corpo su cui, pezzo per pezzo, era stato montato il letale apparato di distruzione. La potenza di quel coso era superiore a quella del più moderno carrarmato in dotazione alle forze U.S.A. Bevve con avidità il liquido di colore verdognolo, storcendo un po' la bocca per il sapore. Sapeva di piscio di montone, almeno così immaginava avrebbe dovuto essere il piscio di montone. Attese con impazienza l'ultima fase. Venne premuto un contatto, da mr. Weird che era stato invitato da Jingo a farlo. Una scarica di radiazioni investì il soggetto. Si inarcò con tale forza che saltarono gli anelli che avrebbero dovuto tenerlo bloccato al tavolo. Fu come se avessero gettato un fiammifero dentro un pozzo petrolifero. I suoi muscoli, sotto la suit, bollivano, mentre vene e arterie si gonfiavano in modo grottesco, quasi che il sangue volesse scappare fuori da quel corpo scosso da convulsioni potentissime. Aveva perso il controllo del suo corpo, colpì con la nuca il tavolo di metallo, incurvandolo fino al punto di aprirvi uno squarcio. Urlò disperato, con la lingua che usciva fuori dal mare di bava che gli aveva colmato la bocca. Le ossa scricchiolavano mentre cambiavano violentemente la propria conformazione. Gli organi interni si torcevano mentre i nervi sembravano doversi spaccare insieme ai tendini. Dopo un minuto cadde in uno stato di immobilità totale.

 

Due occhi da cui colavano lagrime di sangue si aprirono all'improvviso sul mondo.

 

 

Il telefono squillò. Il suo rumore lo strappò di prepotenza dal mondo del sonno dove era sprofondato rapidamente. Aveva lasciato la tv accesa. Che idiota. L'aveva accesa per sentire un po' di compagnia mentre si lavava. Non era riuscito a mettersi sul letto senza prima essersi tolto di dosso la sensazione dello sporco. Uno sporco non tanto materiale a dire il vero.

"Chi è?"

Era assonnato, proprio non riusciva a capire chi fosse. Il numero dell'appartamento l'aveva lasciato solo...

"Ciao Peter."

Era un vero idiota, pensò, come poteva non esserci arrivato subito. Si tirò su di scatto.

"Amore! Come stai? E' successo qualcosa?! Tu, May..."

"Stiamo bene. No. May sta bene. Pensa che tu sia via per lavoro. Sono io che so che non è così. Oh meglio, non per un lavoro per cui potrei essere tranquilla."

"So cosa provi... anche se non mi credi. Penso che dovremo parlare amore mio. Parlare davvero stavolta. Ti devo delle scuse."

"No. Io te le devo. Solo che... il fatto che tu abbia deciso di trasferirti lì per un po'... non è stato per me? Voglio dire, non è colpa mia vero?"

"Angelo mio, cosa dici? Sai benissimo che non è per te. Vorrei essere lì con te! Dio, vorrei sentire il profumo del tuo corpo... i tuoi capelli su di me. Vorrei giocare con mia figlia, come qualsiasi padre e portarvi a passeggio e... ma devo rimanere quì. Almeno per un po'."

"Capisco. Dico davvero Peter io..."

Si interruppe quando sentì il grido soffocato di suo marito.

"Cosa è successo?! Dio Peter, stai..."

"Devo andare!"

Riattaccò senza aggiungere altro.

"Mantieni il controllo. Se ha fatto così ci deve essere un buon motivo. Dio Peter, deve esserci..."

Poi, mentre per caso lo sguardo si era posato sulla TV che aveva accesso per farsi compagnia, mentre su quella sedia decideva se cedere o meno e chiamare l'uomo che amava per sapere se tutto era a posto, il filo dei suoi pensieri venne brutalmente interrotto.

 

"... sì Carl! Quì le cose si mettono male!- L'inviata Keiko Shimura si strinse nel suo impermeabile, mentre la pioggia le frustava il viso.- Le forze di polizia hanno bloccato l'intero perimetro. Non si hanno notizie certe. Si parla tuttavia di almeno 50 morti! Le autorità stanno cercando di organizzare un piano per porre fine a questa carneficina bloccando il mostro! Intanto gli abitanti della città, terrorizzati, non possono fare a meno di chiedersi angosciati, chi potra fermare questa bestia scatenata? Possibile che in questa notte d'inferno, ci abbiano abbandonato?"

"Cristoddio! Keiko!!!"

Il cameraman urlò per avvertire la collega. La telecamera filmò attimo per attimo l'auto che calò come un'ombra minacciosa su di lui, fino al momento in cui le immagini si interruppero bruscamente.

 

 

"Jonah!"

"Sì, so tutto! Abbiamo inviato qualcuno sul posto?!"

"Si, Betty, Ben e..."

"Presto, chiamali e avvertili che si tengano lontani da quel coso."

"Jonah ma..."

"ROBBIE! Fai come cazzo ti ho detto. Me ne fotto che ora sei tu a decidere quì! Ma io conosco quel mostro! So cosa può fare!!! L'ho visto in televisione e ti assicuro che non l'avevo mai visto così!!! Ha già operato una carneficina! Non si fermerà di certo!"

Robertson, senza aggiungere altro, si affrettò ad eseguire gli ordini di Jameson. J.J. era senza fiato, guardava senza dire più nulla un piccolo TV. color che trasmetteva le ultime immagini dell'inviato rimasto schiacciato sotto un'auto lanciata verso la folla. Per un istante, aveva intravisto il responsabile di quell'eccidio. I suoi occhi rosso sangue, le pupille gialle, le lacrime scarlatte, quel ghigno idiota mentre la bava colava dalla bocca carica di zanne. Cadde in ginocchio, coprendosi il volto per la vergogna e la paura.

"Jonah!"

Ma ormai non udiva più quello che il suo migliore amico gli gridava.

"Che cosa ho fatto? Dio!!! Che cosa ho fatto?!?!!?"

 

 

"Signore..."

"Scott! - Urlò Rucker per sovrastare il clamore della pioggia e dei mezzi pesanti della polizia che erano stati messi in campo. - Situazione."

"Il perimetro è stato sgombrato, ci è stato dato l'ordine di creare un cuscinetto tra la popolazione e quel mostro. Tra un po' arriveranno i mezzi della Guardia Nazionale e reparti speciali dalla Volta. Nessuna traccia di super tizi per ora."

"Uno verrà... uno verrà."

 

 

Volava lanciandosi da una tela all'altra. Spingendosi con tanta forza che quasi sentiva le sue ossa scricchiolare. Sotto, macchine, persone in fuga e forze dell'ordine che cercavano di porre ordine nel caos, scorrevano velocissime. Cosa era successo? Perchè proprio ora!?

"Stavolta non posso... non posso ignorare quello che hai fatto!"

 

Ore 09.30. New York. Queens.

Ululava il suo scherno al mondo, ergendosi torreggiante nella pioggia che inutilmente cercava di abbatterlo. Si sentiva felice e pulito, come non gli succedeva da quando era un monello di strada. La sua coda si agitava nel vento, frustando ora qua ora là. Sorrise al mondo che lo guardava in estatica contemplazione, perchè ora di sicuro era il più bello in città. Sapeva che presto sarebbe arrivato qualcuno con cui giocare e divertirsi. Qualcuno di speciale a cui volere bene... da uccidere. Rise divertito, e pestò i piedi a terrò, provocando delle crepe nell'asfalto. Alzò le braccia al cielo e gorgogliò qualcosa di incomprensibile ai più. Un ringhio, un suono orripilante, una minaccia senza senso. Gridò al mondo interno di tremare, perchè lui era lì per giocare e avrebbe giocato! Urlò al cielo che lo sovrastava il suo nome. Urlò ecco! Io sono lo...

SCORPIONE!!!!

 

 

Fine della 5a parte.